lunedì 4 giugno 2012

Recensione: Verticali e Orizzontali


Lo spettacolo viene presentato come una lezione aperta, come un lavoro incompleto e in divenire, una soluzione dovuta soprattutto alla brevità del laboratorio – iniziato a fine febbraio, è durato solo un paio di mesi. Che ci siano ancora molte direzioni da esplorare, in questo metaforico viaggio nelle dimensioni, è evidente. Ogni parola, ogni gesto, ogni movimento dei ragazzi sul palco, evoca una continuazione – un’immagine, un’altra parola, un altro gesto, un ricordo lontano – nella mente dello spettatore.
Tuttavia, nonostante i saltuari suggerimenti da parte della regia, il lavoro appare coeso e coerente.


Un modo di lavorare. Come hanno specificato i ragazzi stessi durante il Salotto, il corpo dello spettacolo è formato dagli “esercizi”, di sperimentazione e improvvisazione, che sono stati affrontati durante il laboratorio e che, solitamente, sono propedeutici alla messa in scena vera e propria. Invece, in questo caso particolare, sono stati “vestiti” con le parole del copione – scritto dai ragazzi sulla base delle loro esperienze nel corso del lavoro – con le musiche e le luci che ne accompagnano i movimenti, e cuciti assieme dando vita a uno sfaccettato mosaico in movimento, emozionante e onirico. Il risultato è uno spettacolo in cui lo spettatore si lascia trascinare e riempire gli occhi dalle figure che di volta in volta vengono composte sul palco, come in una danza, in cui ogni “quadro” rappresentato a una sua compiutezza in se stesso, e una prosecuzione nella composizione successiva.

Verticalità. Stare in piedi. Lo facciamo continuamente, eppure, è davvero così naturale? Un solo punto di contatto col terreno e la testa, lassù, in alto, col rischio di cadere. Se ci si pensa, vengono quasi le vertigini. E questa è una delle riflessioni portate da questo spettacolo. Cosa vuol dire stare in piedi? Spesso sono proprio le cose più semplici, le azioni più elementari, quelle automatiche, che facciamo da quando siamo nati, senza una precisa intenzione di volontà – mi alzo, sto in piedi, non mi chiedo come ciò avvenga, lo faccio e basta – a offrire gli spunti migliori per domande più grandi, più profonde.

Orizzontalità. Il pavimento. Una ragazza rimane sola sul palco. Distesa a terra preme il proprio corpo sul pavimento. È una posizione più sicura, più stabile, rispetto allo stare eretti, però, forse, lo è troppo, troppo statica, troppo immobile. “Orizzontalità è morte” dice qualcuno.
Allora, qual è la dimensione migliore? Ne esiste una?
Ecco che da qualcosa semplicissimo, come lo stare in piedi o distesi, con la sola presa di coscienza dell’atto che stiamo compiendo, ci ritroviamo a interrogarci su cosa significhi stare, stare in un posto, stare nella vita, ossia: essere.

Una risposta, ammesso che ci sia, non sembra essere stata trovata, almeno per ora. Personalmente, spero che il gruppo continui il lavoro intrapreso, lo affini, lo limi, sperimenti nuove direzioni così da portarci di nuovo con sé, nel prossimo viaggio.


Valeria Screpis

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