Lo spettacolo viene presentato come una lezione aperta, come
un lavoro incompleto e in divenire, una soluzione dovuta soprattutto alla
brevità del laboratorio – iniziato a fine febbraio, è durato solo un paio di
mesi. Che ci siano ancora molte direzioni da esplorare, in questo metaforico
viaggio nelle dimensioni, è evidente. Ogni parola, ogni gesto, ogni movimento
dei ragazzi sul palco, evoca una continuazione – un’immagine, un’altra parola,
un altro gesto, un ricordo lontano – nella mente dello spettatore.
Tuttavia, nonostante i saltuari suggerimenti da parte della
regia, il lavoro appare coeso e coerente.
Un modo di lavorare.
Come hanno specificato i ragazzi stessi durante il Salotto, il corpo dello
spettacolo è formato dagli “esercizi”, di sperimentazione e improvvisazione,
che sono stati affrontati durante il laboratorio e che, solitamente, sono
propedeutici alla messa in scena vera e propria. Invece, in questo caso
particolare, sono stati “vestiti” con le parole del copione – scritto dai
ragazzi sulla base delle loro esperienze nel corso del lavoro – con le musiche e
le luci che ne accompagnano i movimenti, e cuciti assieme dando vita a uno
sfaccettato mosaico in movimento, emozionante e onirico. Il risultato è uno
spettacolo in cui lo spettatore si lascia trascinare e riempire gli occhi dalle
figure che di volta in volta vengono composte sul palco, come in una danza, in
cui ogni “quadro” rappresentato a una sua compiutezza in se stesso, e una
prosecuzione nella composizione successiva.
Verticalità. Stare
in piedi. Lo facciamo continuamente, eppure, è davvero così naturale? Un solo
punto di contatto col terreno e la testa, lassù, in alto, col rischio di
cadere. Se ci si pensa, vengono quasi le vertigini. E questa è una delle
riflessioni portate da questo spettacolo. Cosa vuol dire stare in piedi? Spesso
sono proprio le cose più semplici, le azioni più elementari, quelle
automatiche, che facciamo da quando siamo nati, senza una precisa intenzione di
volontà – mi alzo, sto in piedi, non mi chiedo come ciò avvenga, lo faccio e
basta – a offrire gli spunti migliori per domande più grandi, più profonde.
Orizzontalità. Il
pavimento. Una ragazza rimane sola sul palco. Distesa a terra preme il proprio
corpo sul pavimento. È una posizione più sicura, più stabile, rispetto allo
stare eretti, però, forse, lo è troppo, troppo statica, troppo immobile. “Orizzontalità
è morte” dice qualcuno.
Allora, qual è la dimensione migliore? Ne esiste una?
Ecco che da qualcosa semplicissimo, come lo stare in piedi o
distesi, con la sola presa di coscienza dell’atto che stiamo compiendo, ci
ritroviamo a interrogarci su cosa significhi stare, stare in un posto, stare nella vita, ossia: essere.
Una risposta, ammesso che ci sia, non sembra essere stata
trovata, almeno per ora. Personalmente, spero che il gruppo continui il lavoro
intrapreso, lo affini, lo limi, sperimenti nuove direzioni così da portarci di
nuovo con sé, nel prossimo viaggio.
Valeria Screpis
Valeria Screpis
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